APPIANO GENTILE - “L’attesa del piacere è essa stessa piacere”. E’ un’attesa in cui si coniugano piacere ed evento, quella dell’Internazionale F.C. Una lunga vigilia, quella verso Madrid: perché il Santiago Bernabeu si trasformerà si teatro dei sogni per una notte e solleverà il suo sipario sull’esibizione più prestigiosa, quella finale di Champions League che non vede attrice principale la squadra nerazzurra di Milano da trentotto anni. E l’estremo segmento del percorso che condurrà al duello di sabato sera con i teutonici del Bayern Monaco parte dall’eccezionale meeting riservato alla stampa, organizzato dall’Uefa martedì scorso: Appiano Gentile, quartier generale della compagine del presidente Massimo Moratti, diventa omphalos, simbolico ombelico del mondo per un giorno, ed accoglie circa duecento esponenti di testate giornalistiche provenienti da tutta Europa, Spagna, Germania, Inghilterra ed ovviamente Italia in primis. E’ una squadra felice, l’Inter. E non solo perché inaugura la settimana più importante a poche ore dalla conquista del suo 18mo scudetto: le trepidazioni contro l’orgoglioso Siena ed i virtuali contatti con la Roma pronta a recare il dispiacere dalla terra scaligera sono state mutuate nell’estasi meritata per il Biscione. Ed il lungo cordone di tifosi inneggianti, che quasi ostruisce l’accesso all’impianto sportivo, è l’emblema più autentico: è primavera, il sole appena tiepido, il profumo dell’erba inebriante e fresco. Magliette e sciarpe celebrative svolazzano sulle bancarelle, gli striscioni che recitano un atto d’amore nei confronti di Josè Mourinho, stratega ed artefice del miracolo, si sprecano, così come cori e grida che riescono ad echeggiare sino al campo d’allenamento. Ha assimilato la concezione onirica predicata dal suo allenatore, l’Inter: “sogno e non ossessione”, questa la chiave di lettura per gestire l’emotività nella madre di tutte le partite in territorio iberico. Si percepisce già dalle prime battute della prevista esercitazione, avviata con mezz’ora di ritardo previa rituale riunione tecnica ed immortalata dagli obiettivi di miriadi di fotografi. Nell’originale ecumene nata sotto l’egida nerazzurra si osserva, si ride, si dialoga con curiosità, si azzardano pronostici o si tace per scaramanzia. Ognuno coltiva un desiderio diverso nel suo animo. Taccuini e cavalletti migrano da un lato all’altro del perimetro del rettangolo verde; alle spalle, tribune agghindate a festa per i Campioni d’Italia, una cappella multietnica in cui i giocatori provenienti da culture diverse si ritrovano per pregare, locali incastonati nei lunghi viali alberati, inaccessibili e privati. Poco lontano, si allestisce la sala per la conferenza dello Special One, nonché tre pannelli griffati Uefa e distribuiti su tre punti precisi della struttura, mentre gli addetti ai lavori sorvegliano ogni movimento o si dedicano al catering per gli invitati. Mentre sventola incessante la bandiera col classico logo, i primi a fare il proprio ingresso sul prato, ed seguire lo staff tecnico capeggiato da Mourinho, sono Javier Zanetti e Diego Milito. Argentini entrambi, simboli di vittoria: sorridono, chiacchierano sottovoce. Il capitano è icona di sacrificio incessabile e di continuità mai incrinata, l’attaccante ha marchiato a fuoco i due tituli conquistati con i suoi sigilli: in finale di Coppa Italia contro la rivale eterna Roma, nell’ostico ed ansiogeno match di Siena. Lo sguardo di Milito è trasognato, la voce velata sottilmente di umiltà: per lui Madrid è un traguardo di inestimabile valore, ed il desiderio di un triplete che porti la sua firma è quanto di più prepotente s’insinui nel suoi animo. L’ultimo a calcare i campi, accompagnato dal preparatore atletico che ne valuta le capricciose condizioni muscolari, è Mario Balotelli, giovane genio ribelle riabbracciato dalla Curva dopo le incomprensioni e l’opera finemente pedagogica del suo allenatore. L’esercitazione è soft, l’organico diviso in gruppi: i nerazzurri palleggiano, scherzano al calcio-tennis, improvvisano anche siparietti. Come quello di Samuel Eto’o, che si svela leader di simpatia: passeggia altezzoso con un pallone in mano, sormontato da un cono giallo, e canticchia la sigla della Champions, divertendo anche il pubblico astante. Poi interviene Mou, e la concentrazione vige sovrana, mentre Wesley Sneijder e Materazzi cercano di far filtrare la loro innata goliardia. E’ l’anticamera del pellegrinaggio che gli alfieri della Beneamata compiranno verso le postazioni dell’Uefa, per rilasciare non più di tre minuti ciascuno di dichiarazioni. Ed il leit-motiv dei commenti è identico: tanta felicità nell’attesa di una gara che non si vede l’ora di giocare, tanto stupore per l’eco degli eventi, tanta voglia di entrare a far parte della storia dell’Inter. Goran Pandev è carico di meraviglia, per molti professionisti si tratta di un punto cruciale della carriera; Dejan Stankovic ed Esteban Cambiasso, ai quali sarà affidato il metronomo del centrocampo, ricordano il percorso ad ostacoli superato dalla formazione. Poi il momento più atteso: parla lo Special One. Colui che sa commuoversi sino alle lacrime senza ostentarlo. Colui che ha indiscutibilmente stravolto il calcio italiano. Perché Josè Mourinho è etica ed estetica: avanza verso il tavolo della conferenza nella sua figura agile, maglia bianca che spicca sulla pelle abbronzata. Il fascino dell’allenatore portoghese è insito nel suo modo di esprimersi, nella lenta ed istrionica gestualità, nello sguardo profondo e scuro, volto a scrutare la folla ed ammiccare. Nella sua cultura: è mediterranea, nelle metafore, nelle frasi topiche, in quel pathos confuso con la provocazione, che invece rimanda ad una mentalità epica, letteraria. Non tutti hanno saputo assimilarne e comprenderne l’essenza. Per lo Special One la finale di Champions League vanta una caratura superiore rispetto a quella di un Mondiale: nel particolare, è il coronamento del lavoro di un anno col suo club: “E’ con l’Inter che voglio vincere”. Ricorda il doppio varco oltrepassato contro i campioni del Barcellona: “Due partite diverse ma ugualmente fantastiche: prova di grande intensità ed aggressività a San Siro, mentre al ritorno abbiamo parcheggiato un airbus davanti alla nostra porta, in condizioni anormali”. L’allegoria è di stampo anglosassone: ma Josè ne dispensa molte. La più raffinata proviene dal suo Portogallo e serve per spiegare la sua folle e catartica corsa di gioia al Nou Camp, al momento del triplice fischio: “Tutto dipende dal tipo di emozioni-conquista col sorriso-Correvo veloce verso i fantastici tifosi nerazzurri, non certo per irridere l’avversario. Forse qualcuno ha interpretato male il mio gesto: nel mio paese si dice che è come lanciare la sabbia nell’aria. A Siena ho camminato, invece”. Per offuscare la nitida visione delle cose: Mou è abituato ai tentativi di enfatizzazione, persino di destabilizzazione. E la sua storia potrebbe trovare epilogo e prologo proprio a Madrid: lui frena, annuncia 2-3 giorni di meditazione. “L’Inter non può fare niente di più per farmi essere felice- la sua è sensibilità spiccata- La società mi fa sentire importante, i giocatori sono fantastici, coi tifosi c’è empatia incredibile. Non è problema di contratto, né di soldi, perché guadagno già tanto, e mi fa anche un po’ di vergogna con la crisi mondiale”. Sincero, disarmante, fine psicologo, leader carismatico: “Si tratta di soddisfazione personale, bisogno di sentirmi rispettato in un paese calcistico in cui ho avuto problemi in tal senso”. Lascia una porta aperta al rispetto del contratto: “Suggerire un identikit del mio successore a Moratti? Chissà sono io-ammicca deliziosamente-La dimensione umana dei giocatori aiuta molto a costruire la forza di un allenatore. Non è il risultato di una partita che cambia la mia consapevolezza di aver dato tutto all’Inter: sono pulito, libero, per decidere la mia carriera”. Guanto di sfida lanciato senza timore reverenziale al maestro Van Gaal, condottiero del Bayern Monaco: Ho lavorato nel suo staff ai tempi del Barcellona, ma dal 2000 le nostre strade si sono divise, siamo allenatori completamente diversi. Non dimentico le persone con le quali ho collaborato: lui è onesto, ma mi conosce come suo assistente. Ed in questi anni credo di aver percorso anch’io una lunghissima strada”. Diverte, Josè Mourinho: sia quando inventa un’onomatopea per definire la fastidiosa nube vulcanica islandese, o confida di voler guidare il Portogallo in un tempo lontano, vecchietto. Ed a chi gli chiede quale sia il segreto per diventare “Special One”, Mou risponde semplicemente: “Prego molto”. Un uomo, innanzitutto. Custode dei valori, credente e fiducioso nella forza del lavoro e nell’animo di chi lo circonda. Un uomo, speciale nella sua normalità.
Alessandra Carpino
Alessandra Carpino
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